Archive for Saggi

L’Ulisse

Il numero 15 de   “L’Ulisse” ,  rivista di poesia, arti e scritture diretta da Alessandro Broggi, Stefano Salvi, Italo Testa,  è dedicato a “La forma del poema” e contiene due miei scritti nella sezione “Poema e canone femminile”.

La rivista è scaricabile gratuitamente qui

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Testi – Saggi

L’attante di Vicinelli-Rosselli è un cavaliere antico

in La repubblica dei poeti. Gli anni del mulino di Bazzano, a cura di Daniela Rossi e Enzo Minarelli, Udine, Campanotto, 2010.

Vorrei proporre alcune considerazioni sulla collocazione di Patrizia Vicinelli all’interno della ricerca vocale sperimentale e della poesia d’avanguardia di quel contesto storico-culturale. Apparentemente, infatti, il linguaggio e la versificazione di due poetesse come Amelia Rosselli e Patrizia Vicinelli, non hanno quasi nulla a che vedere con le scomposizioni fonico-semantiche-sintattiche che caratterizzano la scrittura e la scrittura orale degli autori e di altre autrici di quel periodo e dei contesti culturali legati all’avanguardia fra gli anni ’60 e gli ’80. Paradossalmente ciò che fa avanguardia nella testualità delle due migliori poetesse di quel periodo è la rilettura-riscrittura del genere principe della tradizione, l’epico. Con La libellula e Non sempre ricordano e I fondamenti dell’essere si assiste alla ri-nascita dello stile epico ma dal punto di vista di un’eroina. Chi dice io, fra moltissime difficoltà radicali, è un’attante, un personaggio donna che intende affrontare di petto la sua sfolgorante entrata nell’agone letterario. L’operazione più tradizionale possibile si riconfigura come ricerca estrema, come esperimento con la vita – scriveva Amelia Rosselli – oltre che con la scrittura. La voce è il vessillo lacerato e lacerante di quest’urlo tragicomico, del risultato sconvolgente di questa doglia per partorire il Sé poetante. L’Io femminile che dice il Sé vivente-poetante è uno scandalo mortale, ovvero da scontarsi con la morte, un tabù atavicissimo viene infranto dalla donna che canta l’epos. Non poteva che immolarsi alla ricerca quest’androgina goffa e leggera, questa parodia svolazzante della Chimera, questo maschio mancato che osa cercare il Graal. L’attante di Vicinelli-Rosselli è un Cavaliere antico che sfida la morte perché osa vivere, un Samurai kamikaze che non arretra di fronte al suo destino di apripista. L’oralità intrinseca ed estrinseca di queste poetiche avanguardisticamente scritte ad alta voce è il rinascimento epico delle nostre autrici, un rinascimento al quale noi poetesse successive dobbiamo moltissimo. Non esisterebbe il mio Comedia – la parodia tragicomica del Sé che nasce alla scrittura poetica – senza queste due donne che hanno saputo far compiere alla storia letteraria un passo avanti significativo, pari a quello delle loro più famose e più riconosciute colleghe statunitensi. L’elemento vocale, la teatralità del poema, non è gioco fonico, non è estemporaneità: è questione vitale, fondante. Denota la necessità dell’autorappresentazione del Sé per poter esistere consapevolmente sulla scena letteraria. Non si può non tener conto del fatto che la poesia delle donne in Italia fino alla fine dell’Ottocento, e oltre, è stata poesia sentimentale, occasionale, e perlopiù superfluamente d’imitazione. E Patrizia Vicinelli, come la oramai studiatissima Amelia, sarà finalmente da studiare tenendo conto del valore filologico oltre che fonologico della sua testualità, come un poeta ‘vero’ insomma, non come un fenomeno estemporaneo, come si tende purtroppo a limitare, forse anche perché lei stessa, forse per insicurezza (stava osando molto e lo sapeva, e certe cose fanno paura…) recitava le sue parole velocissimamente, forse inconsapevole della loro solidità sotto la voce.

I mestieri del poeta

In “in pensiero. Arti e linguaggi che sperimentano il presente”, 04, luglio/dicembre 2010

Scrivo questa nota con l’intenzione di prender parte all’ennesimo dibattito – in questo caso implicito: reagisco agli stimoli dei saggi di Luigi Nacci e Dome Bulfaro sul poeta performer e al loro invito congiunto a dire la mia – sulla ragion d’essere sociale del “fare” poetico, un “fare” talmente assoluto e talmente arcaico da essere l’arcano oggetto del riflettere e del dibattere, specialmente nell’animatissimo mondo dei blog e delle riviste on line, di quanti praticano l’arte poetica. La prendo larga: la cosa chiamata poesia, questo termine-oggetto genericissimo, alla macchia nella vita reale, perché priva, o meglio privata, di un mercato, e quindi fuori dai movimento economici, pervade invece la rete, questo spazio di libertà – di gratuità -, come un sogno di molti. La poesia è l’inutile bene rifugio di tanti, è una valanga di parole che precipita informe quotidianamente invadendo i cristalli liquidi dei nostri computer o le pagine di carta delle edizioni a pagamento del sedicente autore. La poesia non è più, dalla seconda metà del Novecento circa, un genere letterario dotato di tecniche specifiche: sono anni che in ogni dibattito sulla poesia arriva sempre il momento di tirare in ballo il Canone. Il non meglio identificato Canone poetico. La Tradizione Letteraria, con le sue regole metrico-retoriche. Non per nulla quelli che oggi si considerano gli Ultimi Grandi, gli Editi nella Bianca Einaudi, sono i neometrici: Valduga e Frasca stanno per assurgere, per età e produttività, al ruolo di Grandi Vecchi. Ovvero la considerazione di cui godono i poeti affermati sta nella fedeltà, nell’arroccamento, al valore del Canone Tradizionale, questo sconosciuto ai più. Si producono, al contempo, decine di migliaia di sonetti perfetti: per darsi la patente di poeta? Sembrerebbe insomma che lo stato dell’arte fosse così riassumibile: c’è una gran quantità di robetta e robaccia che circola nel web e nelle edizioncelle autoprodotte, ma i Grandi esistono ancora. E pubblicano con la Bianca Einaudi. Questo è il luogo comune della massa degli addetti ai lavori e dei praticanti, perché in questo contesto un pubblico della poesia non è concepito, visto che le vendite dei libri sono irrilevanti e che i giornali raramente recensiscono anche i Grandi Editi. L’argomento meriterebbe pagine e pagine di riflessione, ma questi accenni valgano solo per dire che il termine-oggetto poesia è abusato, assolutamente non chiaro e niente affatto univoco. Cosa si intenda oggi quando si dice “poesia” è estremamente vario e, ripeto, il termine oramai è genericissimo; non per nulla l’aggettivo “poetico” è abusato come sinonimo di bello, cosa che dipende molto probabilmente da ciò cui accennavo poco fa, ovvero che la poesia come sproloquio autoreferenziale coincide per lo più con un esercizio privato di esternazione informe degli stati d’animo personali, i quali godono oggi di un valore etico ed estetico assoluto.

La prima cosa da “fare” sarebbe dunque una tassonomia che ridefinisca cosa si intende per poesia, quando se ne parla.

E, di conseguenza, cosa si intende per poeta. Se chiunque si può autodefinire poeta significa che nella nostra lingua questa parola non significa più nulla, allo stato attuale.

(…)

Fra senso e sensi

Suggerimenti teorico-pratici per la lettura di poesia ad alta voce, in  AA.VV., Leggere e scrivere in tutti i sensi, a c. di Sandra Landi, Firenze, Morgana Edizioni 2003

L’unico modo onesto che io conosca per tenere un corso di scrittura creativa che abbia per oggetto la poesia consiste nel far leggere i testi ai partecipanti al laboratorio, testi propri o altrui non fa alcuna differenza, e lasciare invece che il momento della scrittura rimanga slegato – anche se non indipendente – dal contesto laboratoriale, comunque leopardianamente solitario. Soltanto i grandissimi poeti e/o gli abilissimi versificatori sono in grado di scrivere poesia all’impronta o su commissione o anche solo lì per lì, ma spesso è un gioco, che implicherà ripensamenti e labor limae. In effetti improvvisare un sonetto è facile: in un paio d’ore chiunque si iscriva ad un seminario di poesia si suppone possa farlo (ma c’è poco da illudersi: troppi pensano ancora che fare un seminario di poesia sia la stessa cosa che fare terapia di gruppo. Ma tant’é: e in questi casi l’onesto pedagogo deve scoraggiare l’aspirante poeta e indirizzarlo ad un bravo psicoterapeuta, anche se i confini sono labili, fra poesia e psicopatologia, e vedremo come fronteggiare anche questa catastrofe d’origine romantica). Allora, dobbiamo evitare l’insegnamento passivo della metrica: per imparare questa va benissimo qualche raro corsetto universitario, o un buon manuale. Oltretutto l’insegnamento della metrica come punto di partenza non è accettato psicologicamente dai molti che si ostinano a credere che la poesia abbia a che fare essenzialmente con lo stato d’animo dello scrivente: anzi con due stati d’animo: la gioia o la disperazione. Tutto il resto, specialmente se possiede una forma (la terrorizzante metrica), come cantava  quello, tutto il resto è noia.

Ciò premesso affermo che la ragione etico-estetica per cui tengo laboratori di poesia è la speranza di svuotare nella psiche di taluni il comune senso del poetico, sostituendo nella mente potenzialmente poetante dei miei allievi – che dopo i primi cinque minuti non mi abbiano già preso a uggia – il comune senso del poetico con il senso del poetico, operazione maieutica che non ha a che fare con il giudizio estetico ma con la prassi artigianale. Antropologicamente la vocazione e l’ispirazione poetica esistono, ma non sono fenomeni celesti, ineffabili ed imperscrutabili, sono modalità analizzabili in quanto pertengono alla mente umana, e la mente è fatta di carne. Il fatto poetico (poièin in greco significa “fare”, cioè per noi ‘un fare con le parole, un fare di parole’) è un accadimento, se grandioso possiamo pure dire un evento, che coinvolge l’insieme corpo-mente dell’autore. Poesia significa fare attraverso le parole. Pensiero, sensi, memoria, attualità e storia: chi scrive una poesia fa con il linguaggio, opera con lo strumento più primordiale dell’uomo, se il linguaggio, nella sua quintessenza è voce: ma la voce che ci distingue in quanto esseri umani. La voce articolata in canto. Ma senza la musica. Una voce che è già di per sé musica, non perché ce lo dice lo spirito, ma perché lo sente l’orecchio. Il senso ultimo di ogni atto poetico è il suo ritmo.

La voce può anche essere interiore, come quella dei mistici, ma è pur sempre voce, non pensiero. Parole in libertà? Non esiste libertà in poesia. I versi non sono mai liberi. Libero e soddisfatto del suo fare sarà il poeta che comprende che nel suo “legato” sta la sua libertà: di pienamente esprimersi, ed universalemente, mediante la riconoscibilità universale del ritmo fonico.

E adesso, con i miei dieci lettori superstiti, vediamo come si può fare ad intendersela con la poesia (che deve cessare di essere per pochi eletti, eufemismo che sta per ‘incomprensibile’: la poesia, se è incomprensibile, vuol dire che non vuol dire nulla, la qual cosa può anche avere senso, ma solo se il sedicente poeta ha coscienza di non aver voluto dire nulla, non di essere un poeta ‘ermetico’: ché l’Ermetismo, parola-definizione, nemmeno troppo felice, di un noto critico per una ristretta cerchia di poeti italiani che furono operativi dagli anni Quaranta circa del secondo Novecento, in Italia è tenacemente assurto a categoria dello spirito).

Non interessandomi, sempre per ragioni di onestà didattica, del giudizio estetico, premetto che questo scritto, che riporta ciò di cui parlo in ogni seminario sulla cosa poetica, ha per argomento principale la ricerca dello specifico poetico. Le mie proposte didattiche hanno come fonti studi per lo più rivolti ad esso specifico. L’elenco che segue dichiara in ordine sparso i miei riferimenti, senza dover ogni volta ripetere per intero la dicitura o peggio far ricorso alle note. Non si tratta di una scheda bibliografica, sarebbe troppo lacunosa e soprattutto, come si suol dire, non ‘aggiornata’, ma di un vademecum per l’orientamento metodologico, ad uso di chi mi ascolta e/o per eventuali approfondimenti:

Piero Bigongiari, Tra phonè e graphè, in “Paradigma”, 5, Firenze, Opus Libri, 1983, pp. 3-13.

Franco Fortini, La poesia ad alta voce, Siena, Taccuini di Barbablù, n. 6, 1986.

Roland Barthes, Il piacere del testo, Torino, Einaudi, 1973.

Julia Kristeva, Materia e senso. Pratiche significanti e teoria del linguaggio, Torino, Einaudi, 1980.

Corrado Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Bologna, Il Mulino, 1992.

AA. VV., Phonè semantikè, numero doppio de “Il Verri”, 1-2, marzo-giugno 1993; ivi in particolare Fabrizio Frasnedi, La voce e il senso.

Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966, ivi in particolare il capitolo Linguistica e poetica.

Roman Jakobson – Linda R. Waugh, La forma fonica della lingua, Milano, Il Saggiatore, 1984.

Paul Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Bologna, Il Mulino, 1984.

Marius Schneider, Il significato della voce, in Il significato della musica, Milano, Rusconi, 1970.

Anandavardhana, Dhvanyaloka. I principi dello dhvani, a cura di Vincenzina Mazzarino, Torino, Einaudi, 1983.

Paolo Briganti-William Spaggiari, Poesia & C.. Avviamento alla pratica dei testi poetici, Bologna, Zanichelli, 1991.

Cito inoltre, per consonanza poetica e per stima in memoriam, lo studio Spazi metrici di Amelia Rosselli, in Le poesie, Milano, Garzanti, 1997.

Queste letture mi hanno aiutata ad entrare nella materia vivente della scrittura poetica, o meglio a prendere coscienza dei processi creativi che governano il pensiero poetante, rendendomi così possibile insegnare (ovvero comunicare) l’esperienza non tanto della scrittura – che è e rimane un’esperienza dalle coordinate divaricatissime – quanto della lettura come riscrittura vocale del testo. Poiché è impossibile scindere l’aspetto teorico da quello pratico, in quanto la teoria non trascende, nel nostro caso, la pratica, ma si fa di essa agente, è la teoria insomma quasi il tema della pratica, in quest’artigianato della specularità gemellare fra lettura e scrittura – che sarà l’argomento delle prossime pagine – tento di semplificare il discorso che seguirà proponendo due abstracts, che indichino l’orientamento del discorso. Naturalmente in certi casi sarà più evidente l’aspetto fisico della questione, in talaltri quello ideologico: ma in entrambi i casi dominerà la ricerca del Senso, che è materia dei sensi, e quindi del nostro corpo-mente in azione.

“Il desiderio della viva voce abita ogni poesia in esilio nella scrittura”, ha scritto Paul Zumthor, “ogni poesia aspira a farsi voce“, e secondo Ungaretti solo la voce fissa il testo poetico nella sua forma definitiva, oscurata dal silenzio della scrittura. Octavio Paz, introducendo Paterson di W.C. Williams, dice che il poeta “lavora sulla nostalgia che il significato ha per il significante”. Il lettore di poesia dovrebbe fare lo stesso lavoro, lo stesso processo anamnesico, perché la presenza della voce è il dato primario costitutivo del linguaggio poetico e l’impulso originario inconscio della creatività poetica stessa.

La pratica della lettura ad alta voce, esperienza performativa che appartiene principalmente alle ragioni e alle modalità della scrittura piuttosto che alla recitazione comunemente intesa, ci riconduce alle radici profonde del testo poetico, a quella genesi orale (corporale) che distingue il genere poetico dagli altri generi letterari: “la lettura ad alta voce è una fisica della poesia”, ha scritto Paul Eluard. Lo studio e l’esercizio pratico del lettore si svolgono nell’officina linguistica del poeta, cercando di riattivare e riattualizzare, con l’esecuzione vocale, la voce del testo, gli elementi prosodici, ritmici, metrici, che la giacenza tipografica e l’abitudine alla lettura silenziosa tendono a porre in secondo piano.

Imparare a leggere una poesia significa essenzialmente imparare come è fatta una poesia e che cosa fa una poesia. Imparare a leggere la poesia ad alta voce,  entrare nel vivo della matericità sonora dei versi, ha un fine duplice: favorisce un primo approccio critico alle tecniche, agli stili e alle strutture del testo poetico e quindi insegna ad affinare anche i propri strumenti compositivi, perché aiuta a prendere coscienza degli impulsi emotivi psicofisiologici della creatività, rendendola operativa.

abstract 1): IN PRATICA: Come e perché (non)recitare i versi. Le figure dell’oralità nella scrittura poetica (scrittura ad alta voce: poesia o prosa ritmica) distinguono questa dalle altre modalità di scrittura. Leggere e/è scrivere: ispirazione e vocazione non come “categorie dello spirito” ma come prassi linguistica.

abstract 2): IN TEORIA: per individuare lo specifico poetico si tenga presente che ciò che distingue la prosa dalla poesia è l’esperienza, nella prassi poetica (pensiero poetante), della lingua come respiro e suono, esperienza della voce (la parte sensoriale del linguaggio) che avvicina il fare poetico al parlato glossolalico dei bambini, dei mistici e dei folli, fondamentalmente slegato dalle regole logico-sintattiche della prosa.

1) La lettura ad alta voce della poesia di solito viene affidata o alla spontaneità colloquiale, più o meno imbarazzata e impacciata, dell’autore del testo, o alla recitazione di un attore. Ma di solito una poesia è composta da una serie di righe, i versi, la cui caratteristica è di terminare prima della fine del foglio. Per quale ragione? La lunghezza dei versi determina la composizione metrica del testo, anche nel caso del cosiddetto verso libero. La parola metrica rimanda al concetto di misura, termine matematico e musicale. Strutturalmente un testo poetico è reiterazione regolare di unità equivalenti: il verso è una figura fonica reiterativa e la sillaba è l’unità costruttiva fondamentale della sequenza fonica costituita dal verso (Jakobson). Alla base del verso c’è l’equivalenza dei suoni, e la sillaba costituisce l‘unità di misura ritmica di tale sequenza, essendo la nostra una metrica qualitativa, accentuativa. L’andamento ritmico si configura nelle sillabe toniche. Il testo poetico ha le stesse regole di un testo musicale, perciò la lettura ad alta voce dovrebbe essere piuttosto un’esecuzione musicale che un’esibizione recitativa o una confessione intima. Dire la poesia significa eseguire una partitura: la struttura metrico-ritmica del testo. L’attore che non conosce le forme poetiche imposta l’interpretazione sui contenuti psicologici attribuiti all’autore, non sulle ragioni del testo.

Un esempio utile per capire la differenza fra la recitazione e la lettura ad alta voce è l’uso delle pause. In poesia si distingue la pausa sintattica dalla pausa metrica. La prima segue le stesse regole della prosa, la seconda invece dipende dalla misura del verso: la pausa metrica cade alla fine di ogni verso. Il lettore che non faccia sentire la pausa metrica non rispetterà quel principio di equivalenza reiterativa che costituisce la ragion d’essere stessa di un testo poetico, il quale subisce nella recitazione la violenza estetica della parafrasi: la perdita del suo proprio ritmo. Cercare, nella lettura ad alta voce, i contenuti psicologici dell’autore, non solo è un’appropriazione indebita del testo, ma ha dato luogo all’incallimento del comune senso del poetico (che poi genera il poetese di massa, che gonfia le tasche dei cosiddetti piccoli editori che pubblicano i libercoli a pagamento): è poesia un testo scritto che parla dell’autore, delle sue sofferenze, delle sue gioie, della sua vita insomma, un’idea travisata della poesia lirica tardottocentesca. Trascurare lo specifico poetico significa non porsi la domanda fondamentale: qual’è il senso della scrittura in versi. Bisogna poi accettare il dato di fatto – cosa che sempre ferisce le anime belle che si iscrivono ai corsi di poesia – che un testo è principalmente un atto linguistico (e in ciò, e solamente perché è così, anche etico-estetico!). La funzione poetica del linguaggio, basata com’è sulla ripetizione, ha le stesse caratteristiche della funzione magica della lingua: incantatoria, evocativa. Ragione per cui c’è una spiegazione antropologica alla visione romantica del poeta come eroe: esprimendosi ritmicamente il poeta fa come lo sciamano, il mago, oppure come il bambino e il folle: da qui l’idea di associare poesia e pazzia. Tutto vero. Ma è necessario individuare le tecniche di questo magico linguaggio, se non vogliamo restare prigionieri di un pregiudizio, che poi finisce sostanzialmente per negare la comunicabilità della poesia: se il poeta è davvero un eroe, un essere ispirato da Dio, a casaccio, uno su mille ce la fa e agli altri tale linguaggio rimane interdetto. Vediamo invece come è fatta questa magia, senza sentirci profanatori di un silenzio misterico. Il silenzio in poesia è pausa. La sacralità non esclude la coscienza: così è per il poeta. Senza autocoscienza linguistica non c’è discorso, non c’è la semantica: che invece convive con la forma fonica, altrimenti abbiamo la vacuità di certi falsi avanguardismi paroliberisti di maniera o di malafede.

Paul Valéry ha definito molto bene l’operazione linguistica del pensiero poetante, ovvero linsorgere del pensiero poetico inconscio: “un’esitazione prolungata fra suono e senso”. Il principio attivo dello specifico poetico è l’interazione metrico-semantica, resa inscindibile dalla tenuta ritmica del testo (che il lettore deve individuare e riprodurre). Per leggere/scrivere un testo poetico bisogna analizzare/attivare il livello (il sistema) fonematico del linguaggio, ovvero il genotesto, non quello grammaticale (fenotesto), la matericità udibile del linguaggio, il suo corpo sonoro. Sillabando il testo percepiamo le catene paronomastiche che lo informano. Contiguità, combinazioni, concatenazioni sillabiche formano il codice fonematico del testo, il codice sonoro prediscorsivo, pregrammaticale, sotteso ai significati veicolati apertamente nel fenotesto (Kristeva, Barthes). Una lettura monotona perché vincolata al principio di ripetizione farà emergere i suoni allitterativi (o le dissonanze) delle stringhe omofone (o delle cacofonie, degli intoppi metrici): ascoltando le figure foniche dominanti (sillabiche) emergono le figure ritmiche dominanti (accentuative). Il fenotesto, a questo stadio labiale (infantile) dell’emissione, galleggia nell’apparente nonsenso che lo precede. Il primo approccio alla lettura ad alta voce deve essere la sillabazione metrica del testo, che serve per recuperare i suoi valori genotestuali, generativi, per ‘mettere le mani’ nell’impasto fonoritmico che l’autore ha elaborato inconsciamente (se di linguaggio, lacanianamente, è fatto l’inconscio). Tale operazione di linguaggio è da non confondersi con gli eventuali problemi pscicologici dell’autore, che sono contenuti a posteriori rispetto all’esperienza di linguaggio estetica, coincidendo piuttosto con le sue forme psichiche in statu nascendi, ciò che poi sarà la “poetica” dell’autore, il suo “pensiero”: luoghi a cui si accede in un secondo momento, quando dal genotesto si arriva all’organizzazione discorsiva fenotestuale. Prima c’è il suono che risuona nella testa , come diceva Leopardi nello Zibaldone.

Al livello primario della sillabazione l’intonazione non è espressiva (qualitativa, recitata) ma prosodica, metrico-ritmica, e fa riascoltare al lettore (fa rivivere alla sua voce) il composto pre-espressivo del testo, così ricostruendo il livello fonoritmico originario. In questa fase di scomposizione si individua il tono dominante, la figura fonematica prediscorsiva (genotesto). Il secondo approccio – che segue ad una ripetizione del primo continuata fino alla completa perdita del significato apparente (letterale) del testo – è volto al recupero della forma. L’intonazione diventa espressiva (dopo il solfeggio si può anche colorare l’interpretazione, proprio come farebbe ogni musicista) riattivando la retorica del testo, tutto l’arsenale delle figure (similitudini, sinestesie, onomatopee a questo punto devono essere evidenziate). Individuate e marcate vocalmente le figure ritmico-retoriche si può e si deve considerare e integrare la dizione grammaticale, sintattica, il livello discorsivo, che solo adesso ci apparirà in una luce di senso nuova, sganciata dai significati storico letterari e illuminata dall’intonazione espressiva del testo che si dice mentre si ricompone nella voce del lettore. La combinazione  della fase di scomposizione con quella di ricomposizione dà luogo ad una lettura ad alta voce che non ha più la preterintenzionalità della recitazione attorica. Semplice esecuzione, fedele, ma libera di ricreare il colore delle vocali, il sapore dolce o aspro delle consonanti. Siamo liberi così di affermare, senza timori cattocrociani, che la poesia gode nell’essere messaggio senza referente, ludus metalinguistico, sperimentazione (non avanguardia, sperimentazione, scienza dell’inconscio nel mentre che diventa conscio). Che poi è la sua portata politica e realmente civile: universalità e coscienza della lingua sono ineludibili per pensare liberamente.

Credo sia questo il valore etico-estetico del processo di significanza (Kristeva dice che il poeta è un soggetto in processo, e qui sta la sua visione politico-eversiva), è per questo valore che leggo poesia in pubblico e provo ad insegnare ai miei allievi a leggere la poesia ad alta voce anche solo per capire il senso di libertà morale che la poesia veicola, essendo per definizione trasgressione del codice, delle norme di langue, parole che mirano a farsi Parola, facendosi Voce, vox clamans, denuncia, intrinsecamente scandalo, pietra angolare del linguaggio, Vocazione. In sintesi: le figure foniche dominanti (catene paronomastiche) generano il testo poetico in quanto configurazione ritmica in processo, paragonabile linguisticamente alla funzione magica del linguaggio. La catena paronomastica equivale alla sequenza glossolalica dei bambini, dei mistici, degli schizofrenici: si distingue da essi linguaggi concretandosi nel discorso fenotestuale come ragione e coscienza, senza patologia. I nostri maestri d’area strutturalista hanno evidenziato i rapporti fra periodo neonatale prefonologico-prelinguistico e linguaggio poetico. Il poeta come fanciullino anamnesico-onomatopeico, la cui bocca dice la bocca (os, oris: origine, lallazione dell’infans, godimento metalinguistico, “piacere del testo”), sillabando (pensiamo al gutturale sillabato ungarettiano!) ci indica l’essenza vocale del poetare come recupero dei suoni inarticolati dell’Origine, della Madre (i gridi e le lallazioni dell’infans: si pensi all’impero stilistico del simbolismo!), di Dio (i rapporti fra Verbo e poema: la Bibbia, i Veda: la preghiera come genere poetico). La Voce così intesa, come Archetipo, è l’atto di significazione primordiale che precede ogni scrittura poetica. La parola ritmica appartiene antropologicamente al linguaggio primordiale, primitivo, de-mente. nelle culture orali il canto ripercorre i miti della Creazione: è egli stesso l’atto della Creazione, la Parola Creatrice, il Verbo, il ritmo cardiaco dell’universo, il mantra.

C’è evento poetico se c’è timbro e ritmo, cioè riconoscibilità di stile. Il legame fra ritmo e significanza è inscindibile; la voce del lettore si misura col ritmo del testo, che ne costituisce il senso sensibile, il Senso in quanto sensuale, che è il significato della parola ‘significanza’ per Barthes. Il ritmo è il senso stesso che si fa nella dimensione della significanza: il lettore – filologo intuitivo lo ha definito bene Frasnedi – insegue il senso che nel mentre che nel testo il senso si fa.

2) Corrado Bologna ha riconvogliato ed evidenziato, nel suo breve e lucido saggio del ’92, le varie teoresi sparse che da mezzo secolo stanno tentando di fondare l’ontologia della lingua poetica come Voce, superando i confini della poesia orale (etnica, tanto per esprimerci con un termine banalizzante ma chiaro) per estendere il concetto alla poesia come genere letterario. Anche se in questa sede non tratterò l’argomento, Bologna ha, per esempio, messo in luce il fatto che Dante, ossessionato dalla ricerca dell’origine della parola poetica (dello specifico poetico, ché per noi in questo discorso i termini equivalgono), lo trova facendosi “lattare” dalle Muse, il cui latte fornisce “matera” al suo canto, una materia che è fatta del sapore delle vocali e delle consonanti onomatopeicamente acconce all’argomento: come dire che per Dante il discorso, il lògos, se accade in poesia, è veicolato e anzi preceduto, ispirato nell’oralità. Questa in Dante è una tematica fondante e fondamentale, e mi riservo altrove una trattazione specifica. Qui ci basti asserire, con Kristeva, che l’equazione voce (poetante) – cibo vale per l’infante come per il poeta. Il poeta agisce retoricamente lo stesso meccanismo che presiede alla creaturalità nascente, facendo del suo “fare” una metafora del bisogno primario. Al neonato la vocazione (la vocalizzazione) serve per riempire un vuoto, la mancanza di cibo, è una risposta alla fame, una risposta vocata che sostituisce il vuoto, la mancanza. Il neonato, per ragioni fisiologiche, confonde le funzioni dell’apparato respiratorio con quelle alimentari, l’immissione-emissione d’aria e di cibo. L’apprendimento del linguaggio è un processo di sublimazione drammatico. Il linguaggio poetico torna, regressivamente, a confondere le due funzioni, torna all’indifferenziazione cibo/suono della madre che dà conforto ritmico vocale mentre allatta. Ogni vocazione nasce da una mancanza dolorosa, perché ripete coattivamente ciò che accade nel periodo prefonologico dell’emissione sonora. La ripetizione ritmica è consolatoria (catartica) perché riproduce la nenia materna, il suo effetto incantatorio, il cui scopo è la fusione con la madre percepita come unità che dà voce-cibo. Tale regressione è patologica quando sfocia nei linguaggi ritmici ma insensati della schizofrenia, mentre le costrizioni ritmiche del linguaggio poetico e mistico sono semantizzate: da qui la definizione di specifico poetico come senso che nasce dal ritmo, che poi è il valore universale della preghiera.

Poesia è dunque una sequenza fonica che rivive (uso il termine nel senso attorico stanislawskjano di ‘reviviscenza’)  il principio metalinguistico del puro piacere vocale della lallazione sostitutiva dell’in-fans. Il suono è più importante del significato ai fini del senso del testo, colluso col piacere orale dell’infante, un godimento effusivo, dove parola e cosa sono confuse e corrispondenti, come negli atti magici. Il folle e il bambino, il soggetto appartenente ad una cultura orale, non distinguono fra parola e cibo (cosa, oggetto) perché non distinguono realtà da magia come oggettivazione sonora derivante dalla corrispondenza fra parola e cosa: la cosiddetta magia simpatica, incantatoria. Jakobson apparenta funzione magica e funzione poetica della lingua: ai membri più ingenui di una collettività linguistica, suono e significato appaiono indissolubilmente connessi fra loro non per convenzione ma per natura. La paronomasia, l’onomatopea, le sequenze glossolaliche e in genere i fonosimbolismi sono tipici del linguaggio infantile, mistico e folle. (La poetica pascoliana del fanciullino è una metafora per descrivere la funzione poetica della lingua individuandone lo specifico).

Il soggetto poetante, erede della neurologia del bambino, del mistico, del folle, smuove il linguaggio operando nella non arbitrarietà saussuriana del segno poetico. Scopo del testo poetico è abbattere la barriera fra significante e significato della parola. In questo processo sacrificale di eliminazione delle apparenze convenzionali del linguaggio si innesca il mito di fondazione metafisica del fare poetico: abbattere la barriera delle lingue e ricreare la lingua originaria (divina), abbatttendo le barriere fra fenomeno e noumeno, Io/Tu/Mondo, interiorità ed esteriorità. E’ il mito di Dante, che affiora in certi luoghi del Paradiso e del De Vulgari Eloquentia, e di Jakobson, quando parla degli universali fonosimbolici come se esistessero, avendo precedentemente asserito che Linguaggio e Poesia sono due universali inseparabili.

Il poièin è una modalità mistica di superamento del dualismo ontologico: quindi ha tecnicamente a che fare col sacro. Con la sacralità mistica della Creazione.

Ma prima di proseguire vorrei sottolineare che le mie asserzioni e maiuscolazioni non derivano da atti di fede hippy-semiotica Anni Settanta (cui pure devo la mia formazione culturale) ma dalla cognizione della differenza antropologica strutturale in senso neurologico fra lingue della poesia e lingue della prosa, ma non in un ordine di pensiero critico quanto piuttosto in quello empiricamente funzionale alla dizione in versi: come dire che non è colpa mia se la poesia si è evoluta poco dal simbolismo in poi quanto alle forme e alle tecniche, che poi rispondono sempre al vecchio apparato retorico della Tradizione. Ogni tentativo di innovazione va effettivamente verso la prosa: e il lettore dovrà far sentire quella prosa, senza infingimenti. Ma ciò che aspira realmente al canto continua a respirare le regole tanto bene elencate da Jakobson. Insomma: non voglio costruire con il mio discorso una mistificazione ma piuttosto una allegoria funzionale, orientativa.

Dunque, riprendo dalla _scienza della voce_ di Bologna seguace di Zumthor. Il suono della voce è sentito come forza mistica in tutte le culture orali (compresa la cultura dell’infans, direbbe Kristeva ponendosi dal punto di vista della Madre). L’emissione vocale è un paradigma universale della Creazione (che è opera del Padre? Su questo dictat, comunque, si fonda la Tradizione Poetica Italiana). La vocalità è una forza archetipica inconscia dotata di un potente dinamismo creatore (giochiamo a carte scoperte: questa è la nostra Allegoria). La voce è prima del significare (semiotica) e del comunicare (semantica) della Parola e del Linguaggio. La voce è ciò che deriva dal soffio ispiratore (Spirito Originario). Perciò la Voce è latto di significazione che precede la scrittura. La sillaba è lunità di misura di una fonesi che tende a recuperare i suoni inarticolati dellOrigine (della Madre). Il linguaggio scaturisce dalla voce e non viceversa. Latto di significazione a cui il poeta si dedica è la decostruzione del linguaggio, che riduce al silenzio le parole (i segni) per riconquistare la loro voce originaria (che canta sotto il testo).

Il soffio creatore (pnèuma, spirito, animus, psykè) è il motore mobile del processo creativo-poetico: le grandi religioni monoteistiche sono tutte religioni del Soffio, della Voce che Chiama/Crea, una voce sinestesica: una Voce Luminosa. Torneremo su questa persistente allegoria dell’origine e del senso del poetico, ma prima riprendo l’altra altrettanto persistente della Creazione (Poetica) legata alla fame come mancanza, quindi al cibo.

Appendice: per un assaggio di poetica dell’autrice

La poesia è stata in tutti i tempi, vivere secondo la carne. Ha costituito il peccato della carne fatto parola, eternato nell’espressione, oggettivato.

Maria Zambrano, Filosofia e poesia

Aggiungo – per amor di chiarimento e di empatica fusione con il mio ‘apostolato’ poetico – queste poche righe di autoriflessione, pubblicando qui un saggetto scritto qualche anno fa, poco prima di dare alle stampe Comedia (Milano, Bompiani), titolo “che ovviamente deriva dal latino comedere”, mangiare, come recita ipocritamente la nota finale a quel testo del 1998. Preferisco commettere questo piccolo atto di vanità che non addentrarmi ulteriormente nella complessa questione – sopra appena sfiorata -del rapporto fra poesia e cibo, della parola poetica come anàlogon del cibo, mitologema che si diffonde dai Veda a Dante, in cui l’equivalenza acquista una straordinaria evidenza metaforica, sostenendo decine di similitudini nella Comedia (senza dire del titolo iperconnotativo di Convivio). Rimando questo studio ad altra occasione, dato che in questa sede il piatto forte non è la precisione filologia, ma l’ipotesi didattica. Certamente nel principio infantilmente sinestesico che muove la parola poetica il gusto ha un ruolo antropologicamente fondamentale. Poesia e gusto (=cibo) è uno dei grandi temi della letteratura universale.

A proposito del titolo e del contenuto di questa appendice, mi sembra opportuno specificare che non avevo ancora letto il bellissimo libro di Maria Zambrano , posto qui ad epigrafe, quando ho scritto questo saggetto di poetica, e che la frase citata è l’esordio del paragrafo Mistica e poesia. Sottolineo il fatto a riprova dei non misteriosi, ma umanissimi (linguistici, appunto), legami fra mistica e poesia (il libro della Zambrano risale al 1939, quelli della Kristeva, di Jakobson, di Schneider, a trent’anni dopo), evidenti per chi si misura con la poesia in un corpo a corpo, che è l’unico modo per me riconoscibile come modalità di approccio personale alla scrittura-lettura e di comunicazione didattica del poièin.

Cantare di me: il peccato della lingua.

La scrittura della voce

Poesia e voce sono corpi di linguaggio: letteralizzando la metafora di vocazione, la lingua poetica, in quanto vocata, è un corpo di linguaggio. Giusta l’allegoria del corpus dell’opera, di lingua è fatto il corpo attraversato dalla voce, corpo plasmato dal pnèuma enthousiastikòn dell’estro poetante, per cui la sopravvivenza è possibile solo nel corpus poematico, sostituto parlante, cantante, vociante, del corpo muto.  La lingua vocata lo attraversa come cibo, diventa l’unico alimento, la sostanza costituente il corpo-mente: all’origine della mia lingua poetica c’è un “peccato di gola”, l’abbuffata indigesta  delle lingue genitoriali, dove l’accento dell’infanzia casca sulla commistione dei due lessici-inflessioni familiari toscano e calabrese, voci narranti da cui prende abbrivio il poemare mediante rievocazione, reinvenzione, falsificazione, simulazione e contraffazione. Prendere la lingua per la gola, deglutire golosamente le “dolcezze estreme” del melodramma (L’estro, Fienze, Cesati, 1987), induce all’estro, il pungolo costante esercitato dalle voci, pungiglione che ferisce e sprona ad entrare nel canto, nel multiforme spettacolo della memoria edulcorata dell’infanzia; ingoiare la polpa/parola e diventare, in stato di eccitazione, tutta linguaggio, per un fenomeno di scialorrea-logorrea, acquolina in bocca, fame di parole nella gola tesa come il gargarozzo dell’uccellino implume, dell’infante che tende a ricongiungersi, bocca a bocca, con le fonti originarie della lingua donata.

 Ma il “peccato di gola”, punito, interdetto, lo strazio, la colpa del mangiar-poetando e del poetar-mangiando, diventa il peccato della lingua, il tradimento e l’abbandono, per vocazione, dell’afasia del corpo femminile indifferenziato e demente, di fronte al quale è necessario esibirsi, rappresentare.   Il corpo muto prende la parola e reclama attenzione: l’adolescenza è rottura con l’edulcorato canto donato e inizio delle asperità tragicomiche del corpo in violenta muta, nel quale il pnèuma della vocazione eccitante pervade dal basso, come bòtta e dolce devastazione dei muscoli e del sangue, per poi risalire alla gola-lingua e rifarsi voce.  La ragazzina, nell’età di tutte le pene, è corpo astruso, stravolto, esorbitante, esile o grasso è una zona franca, angelica, ancora asessuata, ma continuamente alle prese col sesso: così il corpo-rima abbandona le dolcezze melodrammatiche del canto e si contorce annaspando in sibili comici, fino all’orgasmo della strozza, mentre si rappresenta di fronte ai genitori spettanti. La lingua, teatro delle metamorfosi del corpo vocato, muta trasformandosi di verso in verso. Nella barocca forza metamorfosante del teatrino che il corpo infantile-adolescenziale si ostina a rappresentare, ancora adesso in morte mi produco, tramite la lingua, di fronte all’immagine dei genitori esigenti-spettanti, sdilinquendomi in versi sciolti, per loro natura fonoritmica ispirati ai varii tempi e suoni del respiro e della voce, cioè in sé attuanti una recitazione, un’azione vocata: actio retorico-performativa (forse la “scrittura ad alta voce” auspicata da Barthes e da Fortini?).  L’impossibile accordo delle membra nella fisionomia smarrita diventa possibile solo attraverso il lavoro fisico delle corde vocali, il cui attracco alla pagina scritta consente di evitare il rischio, davvero mortale, della sparizione-atomizzazione nel corpo muto: contrapporsi alla madre è il peccato erotico della lingua del corpo in stato di autorappresentazione per verbalizzare, fare tutto lingua, il corpo muto della madre, per produrre il “corpo di me” come differenza in perpetuo movimento vociante: per questo in Vrusciamundo (Porretta terme, I quaderni del battello ebbro, 1994) cito Fedra che dice “io vedo la mia perdita scritta”.  Per autocostituirsi e porsi in rappresentazione il corpo si farcisce di linguaggio: è un attacco bulimico la scrittura di poesie lunghe che prolunghino il piacere vorace di scialacquare parole in modo esorbitante, incontenibile, anche maldestro, goduto e compiaciuto, esultante, sconcio.  Ripetendosi in ogni testo l’atto di violenta contraffazione, la lingua è uno scilinguagnolo, un chiassoso sdilinquimento, travestimento, trucco e quindi nascondiglio della pena.  Nelle righe dei versi che si riversano sulla pagina come una colata, versi disarmonici, brevissimi o fastidiosamente ipermetri, sempre estremi, con accenti fortemente cadenzati e rotture improvvise di ritmo, cadute sguaiate o consonanze esasperate quasi per infastidire il lettore, come infastidiscono gli eccessi adolescenziali, nel furore delle rime forsennate, si placano le pene corporali, le pene di quel passaggio impossibile, mortale, che è l’adolescenza.

  Tutto entra nella vertigine del mutamento dell’io disperso in poema, dell’io eroe-tutti-e-nessuno dall’anima teatrante. Simulazione continua di uno smembrarsi e di un ricomporsi comico nel doppio senso della variegata e impura lingua dantesca (tanti furti alle sonorità petrose dantesche) e di una straziante “allegria” (ma avendo in mente l’Ungaretti di Croazia segreta), in un trasformismo alla Fregoli che chiede al lettore non comprensione, ma compassione, immedesimazione nell’atto catartico della lingua; “comica” per esorbitanza, strabilianza, esibizione buffonesca delle fratture, delle storture, con la disperazione assoluta del divertirsi da sé, nel pasticciaccio gaddiano di una lingua “centrogravitata sugli ovarici”, sulle variazioni perpetue dei dosaggi ormonali, sugli scompensi neurovegetativi.

  All’interno del progetto ‘narrativo’ del libro c’è un dramma suddiviso in scene allegoriche: un sipario divide una poesia dall’altra, e in ogni testo-scena si parla per interposta persona, per controfigure, un’infinita marmaglia da corte dei miracoli, sempre avendo come modello i canti delle metamorfosi infernali.  Nella possessione estatica che dà voce al corpo muto, la gola, le corde vocali, sono il tramite delle parole di altri, la lingua poetante è la filiazione trasfigurante il discorso degli Altri in un’epopea massicciamente contaminata da dialettismi, arcaismi, gerghi teatrali e televisivi e tutti i suoni che entrano nel bla bla della lingua parlata, parole che dilagando nel trasmutare metabolico fermentano, cagliano, si decompongono, e i cui echi familiari divengono estranei e cambiano senso trascorrendo in una logofisica dispeptica per tutta l’anatomia del corpo muto, il quale abbandonando quell’inerzia sonnolenta che intorpidisce i ladri di Dante un attimo prima dell’orrida mutazione,  si trasforma, anzi rinasce come, in corpo di me, me musa a me stessa, ormai intesa, per un processo antistorico di autofigurazione e autorappresentazione, a tentar di nullificare nel soggetto-oggetto Me-Lei, ovvero nell’Altro in sé, l’opprimente barriera lirica Io/Tu, con un divorante, dissipatorio e asfissiante scioglibocca, non già ignoto alle partiture foniche della Molly joyciana e del Beckett di Not I. Neoenfatica scrittura allo stadio orale (anzi, meglio, allo stadio labiale) ed estaticamente orante, però aliena da consolatorie rileccature neometriche, se l’Io è violentemente spodestato dal Me, l’ipocrita non essendo più il lecteur.

SEXTON / DANTE

QUESTE VOCI VO COMPARANDO

Appunti per una poetica della traduzione orale, in “Semicerchio. Rivista di poesia comparata”, XVIII, 1998

nescit vox missa reverti

Orazio, Ars poetica

La voce che esegue un testo è un filologo intuitivo

Fabrizio Frasnedi, La voce e il senso, “Il verri”, marzo-giugno 1993

C’ero una volta io

l’unica bambina cui fu vietato oltrepassare

il giardino. Non osava alzare la voce

più delle rare antichità vittoriane della

collezione di famiglia.

Anne Sexton, 16 dicembre

Tradurre può anche significare pensare la voce. Se l’amorosa devozione che soggiace all’atto del tradurre empatico è un trasporto vocale, la voce del testo di partenza ragionerà nella mente del traduttore per tutto il tempo necessario a che esso vi risuoni, e a che prendano corpo le risonanze della memoria poetica nella lingua d’arrivo. Questo viaggio dei suoni in una dimensione mnemonica spaziotemporale porta il traduttore ad un recupero inconscio delle voci, non in senso metaforico, della tradizione. Traducendo, infatti, o leggendo una traduzione, si ha spesso la sensazione, talvolta sgradevole per impertinenza, altre volte foriera di ammiccanti complicità a tre (autore, traduttore, lettore) – oppure di bonomiche pacificazioni a fronte dell’universalità del sentire -, si ha spesso, insomma, la sensazione di citare o sentir citare a memoria. Prima che il traduttore arrivi allo schiocco di dita perchè ha trovato la citazione, quella che dà credibilità e leggibilità al testo d’arrivo facendolo approdare il più possibile illeso nel porto del linguaggio poetico straniero all’autore, nella memoria sonora di chi sta traducendo avviene un rimpasto ai livelli fonematici degli ingredienti poetici incorporati: le memorie contestuali si manifesteranno dapprima come scorrelate aggregazioni di suoni, catene fonematiche sparse, che solo in un secondo momento riguadagneranno l’assetto semantico della contestualità, nonché la sincronica messa a fuoco dei rimandi intertestuali. E’ sillabando che ‘si trova la parola’, ma la sillabazione riconduce alla genesi prediscorsiva (prelinguistica) del testo, alla base fonoritmica del dettato di altrui voci. Voci appunto, non significati referenziali ma materialità sensuale dei significanti, voci che sussurano o percuotono mentre si prendono un corpo di parole: il movimento incessante della significanza. Se poi il traduttore e il tradotto hanno anche un approccio performativo, quindi doppiamente ‘sensuale’, col fare poetico, ovvero se il testo di partenza è, per usare una felice espressione di Fortini, una poesia ad alta voce”([1]), e il testo d’arrivo è affidato alla cura di un traduttore-lettore ad alta voce, pensare la voce, scrivere la voce, riassume interamente il senso dell’operazione.

Anne Sexton fu poeta-performer, non tanto o soltanto perché si faceva accompagnare nelle sue letture da un gruppo di musicisti rock, quanto perché concepiva la pratica poetica, il suo stile, come retorica dell’actio, unione inscindibile di gesto (di incarnazione del testo) e dizione, phoné, dove l’io lirico non è un soggetto ma una sua maschera, un personaggio che per rappresentarsi ‘prende la parola’, un io prosopopeico insomma, con quell’enfasi che di arcaica necessità teatrale, da poema orale, lo accompagna: il fenomeno pop, il freak show([2]) che la rese celeberrima, specialmente all’altezza della scrittura di Love Poems (1969), raccolta appunto di ‘canzoni d’autore’ – e della specie più sanremese, canzoni d’amore – era un binomio inscindibile ed esplosivo di mascherata kitsch e ‘grana della voce’, per dirla con Barthes, quella voce rauca, resa sgranata dall’abuso di alcol e droghe, da tragica femme fatale dei suburbi, quel timbro costante di diaframma, dai toni inespressivi, fedeli al ritmo prosodico, che la registrazione dei suoi readings ci ha conservato. Il testo era per la poetessa americana un’unità mobile, vocativa, dettato dall’esperienza della pratica performativa, dall’arte di una fonazione che precede il testo rendendolo poi sempre passibile di modifiche al momento del rewriting stage, della riscrittura vocale([3]), della verifica sul palcoscenico, dell’inverarsi del corpo fonico, della materialità del significante, cioè al momento del ritorno del testo alla fluttuante e fluida origine sonora, poi cagliata in scrittura. “Scrittura ad alta voce“, per usare un’altra categoria di Barthes – anzi condividendo gli auspici barthesiani per la fondazione di un’eversiva “estetica del piacere testuale”([4]) – fu la ragione formale (nonché l’impulso etico di fondo) della poesia di Anne Sexton.

Si è però usato impropriamente il termine ‘teatrale’: la poetessa-performer non è un personaggio nel senso drammaturgico del termine, non rappresenta un altro da sé, rappresenta i Sé dell’io poetante. La poetessa-performer mette in scena le sue voci dell’Altro. Per semplificare: legge ad alta voce la sua scrittura ad alta voce. Che è come dire che la lettura ad alta voce è strutturalmente apparentabile a quel trasporto vocale del testo cui sopra si accennava. La lettura ad alta voce è allora uno dei possibili modi del tradurre, può diventare uno stile di traduzione. La lettura ad alta voce ha però meno a che vedere con l’interpretazione che con la ricreazione del testo, poiché non è giocata sul recupero dei significati ma sulla reviviscenza dei livelli fonici, deve essere una traduzione fedele alla voce del testo: ad ogni testo basta la sua prosodia, tratti sovrasegmentali abusivi non sono concessi al performer che sia anche poeta. La trasposizione vocale del testo poetico, in quanto riscrittura orale, è una forma di traduzione dello stesso testo appartenente al genere (ancora tutto da codificare, in quanto tale, nonostante i ripetuti avvicinamenti barthesiani) della poesia ad alta voce; dunque la traduzione poetica effettiva dovrà tenerne conto. In tal senso una traduzione-lettura ad alta voce della poesia di Anne Sexton risulta essere un’appropriazione assolutamente debita, necessitata.  Se però la lettura ad alta voce è genericamente ascrivibile all’ambito della traduzione poetica, come ogni traduzione appropriata non si limiterà a (ri)produrre senso, tenderà a prolungarlo, per quel fenomeno retorico di ridondanza sonora che investe la memoria poetica, e talvolta potrà perfino – ma senza tradirlo ‘troppo’, restando fedele almeno all’accento, all’intentio retorica – saturare o suturare certi ‘vuoti d’aria’ del flatus testuale, ma iuxta propria principia consuonando.

(…)

[1]       Franco Fortini, La poesia ad alta voce, Siena, Taccuini di Barbablù, n. 6, 1986.

[2]     Cfr. Anne Sexton, No evil star. Selected essays, Interviews, and prose, edited by Steven E. Colburn, The University of Michigan Press, 1985, pp. 33-38.

[3]     Cfr. Rosaria Lo Russo, Introduzione a Anne Sexton, Poesie d’amore, Firenze, Le Lettere, 1996, pp. 20-27.

[4]  Roland Barthes, Il piacere del testo. Contro le indifferenze della scienza e il puritanesimo dell’analisi ideologica, Torino, Einaudi, 1975, p. 65.

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